Il Padre nostro è cambiato? Non la preghiera, ma la traduzione

A cura di don Stefano Romanello

È cambiata la preghiera di Gesù?

La nuova edizione del Messale Romano addotta la traduzione ufficiale del Padre Nostro presente nella Bibbia CEI del 2008, e così la sesta richiesta non recita più “non ci indurre in tentazione”, bensì “non abbandonarci alla tentazione”. Qualcuno, entusiasta, ha già introdotto la formula nelle celebrazioni prima dell’uscita del nuovo Messale, altri all’opposto storcono il naso: perché cambiare la formula di preghiera ormai ben conosciuta? È bene innanzitutto rammentare un fatto scontato, non è cambiato il Padre Nostro, ma la sua traduzione.

Non abbandonarci alla tentazione

Il Padre Nostro è una preghiera a noi giunta in greco, in due versioni, una quella di uso comune, tramandataci da Mt 6,9-13, l’altra più breve da Lc 11,2-4. Esse riflettono le tradizioni liturgiche delle rispettive comunità, ma si basano su un originale a noi sconosciuto che risale a Gesù, ed era nella lingua da lui parlata, l’aramaico. Sia Matteo sia Luca riportano, in termini identici, la richiesta riguardante la tentazione. È ovvio che la formulazione tradizionale suscita perplessità: se Dio è il Padre che vuole la nostra salvezza come può volere per noi qualcosa di male, sì da essere stornato in questo con la nostra preghiera? Già il NT, segnatamente la lettera di Giacomo, nega questa possibilità: “Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno” (1,13). Cosa vuol dire, allora, quest’invocazione?

“Tentazione” o/e “prova”?

È necessario andare al testo greco per capirlo bene. Innanzitutto c’è la parola “perirasmos” che può voler dire “tentazione” come “prova”. Per prova s’intende l’esercizio normale della nostra libertà: di fronte alle scelte da prendere ci mettiamo alla prova dovendo decidere l’orientamento da dare alla nostra esistenza. La tentazione è, per così dire, il suo risvolto recondito, il rischio di orientare la nostra libertà in direzioni opposte al progetto di Dio. Dio certamente non può sottrarci alla prova: sarebbe smentire la nostra stessa indole di esseri liberi. Anzi, nell’AT leggiamo che Dio “mette alla prova” i suoi fedeli, come ad es. il popolo d’Israele, condotto da Dio nel deserto proprio per essere educato a orientarsi all’Alleanza che Egli sta per stipulare con loro (Dt 8,2). E così Dio mette alla prova ogni essere umano, ma non lo fa con l’intenzione malevola di farlo cadere, bensì con quella di formarlo nella fede, che è sempre un atto libero. In questo accetta anche il rischio della risposta negativa, della libertà distorta che si fa tentare su strade più facili e auto-centrate.

Possiamo adesso andare all’altro termine dell’espressione. Questa è la costruzione “eispherô eis”, che vuol dire “portare, condurre verso”. E qui la difficoltà si accentua. Se infatti Dio non può essere pregato per non portarci alla tentazione, poiché egli non tenta nessuno al male, nemmeno può essere pregato per preservarci dalla prova, se questa è condizione necessaria della fede e della libertà. L’espressione deve avere un senso traslato che si può individuare sulla base dell’intero racconto evangelico.

La prova/tentazione di Gesù e dei discepoli

Gesù ha vissuto la prova/tentazione comune agli esseri umani, ma l’ha superata sempre compiendo la volontà del Padre. I vangeli sinottici all’inizio della sua missione collocano l’episodio delle tentazioni, in cui il diavolo lo provoca a far ricorso alle sue prerogative divine a suo tornaconto, per realizzare un messianismo spettacolare e trionfatore. Ma è soprattutto nell’imminenza della morte che la prova assume il tono della drammaticità. Nel Getsemani (Mt 26,36-46) egli avverte l’angoscia della morte imminente, e prega il Padre che allontani il calice della sofferenza. La preghiera ha però la forza di far emergere la sua relazione filiale con Dio che è Abbà, Padre, e così realizzare l’adesione totale alla sua volontà. Interamente uomo, Gesù si dimostrerà al contempo interamente Figlio di Dio, non in qualche miracolo spettacolare, bensì nel “miracolo” dell’obbedienza.

Giunto dai suoi discepoli li trova addormentati, e li ammonisce: “Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione (mê eiselthête eis peirasmon)”. Questa frase, in tutto il vangelo, è quella che si avvicina di più a quella del Padre Nostro. E nemmeno questa può essere intesa in senso letterale: i discepoli, infatti, si trovano già in un contesto di prova! Contrariamente a Gesù, essi soccombono alla tentazione (lo lasceranno solo) perché non sono capaci di affidarsi al Padre con la preghiera. Le parole di Gesù, a loro come ai discepoli di tutti i tempi, indicano nella preghiera la dimensione-forza necessaria per affrontare vittoriosamente la prova/tentazione. Il verbo “entrare” va allora inteso in un senso intensivo: “non cadere, non soccombere”. Il Padre nostro esprime proprio questo monito di Gesù: essendo parola rivolta a Dio il verbo “entrare” è tramutato naturalmente con “condurre”, e va inteso nello stesso senso intensivo: “fa che non soccombiamo nella prova/tentazione”.

Il “non abbandonarci”

Come si vede, a volte la traduzione stessa di certe espressioni richiede uno sforzo d’interpretazione che, per farne emergere il senso, non può limitarsi a una resa letterale. È un fenomeno che ricorre in altri passaggi della Bibbia. La traduzione “non abbandonarci” sottintende l’idea che, per non farci soccombere, Dio non deve abbandonarci. Indiscutibile, tuttavia si potrebbe obbiettare che in questo caso il processo d’interpretazione si è spinto troppo in là, introducendo l’idea di “abbandonare” assente nel testo greco. Ad ogni modo è necessario che la preghiera sia totalmente libera dall’idea sinistra di un Dio che potrebbe condurci al male, e sia invece espressione di fiducia al Padre che, unico, dona la forza per affrontare vittoriosamente la prova, come già spiegava il compianto Rinaldo Fabris nel suo commentario a Matteo.

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