Il canto delle acclamazioni aquileiesi, l’intercessione di una Chiesa

Da alcuni anni, ormai, nella celebrazione dei Primi Vespri dei santi Ermacora e Fortunato l’ingresso solenne dell’Arcivescovo e degli altri ministri, preceduti nella processione dalle croci astili delle pievi storiche della nostra Chiesa, è ritmato dal canto delle acclamazioni aquileiesi. Si tratta di una forma liturgico-musicale particolarmente suggestiva e di grande efficacia, caratterizzata da una struttura dialogica incalzante e dall’intreccio di generi diversi, come l’invocazione e l’acclamazione. Grazie a questa modalità “aperta”, è ottima “colonna sonora” dei riti di soglia.

 

Le invocazioni ai santi

Innanzitutto troviamo le invocazioni ai santi, in relazione alle figure ministeriali per le quali si chiede salute e vita, con la formula Tu illum adiuva: per il papa si chiede innanzitutto l’assistenza del Salvatore e poi, ovviamente, dei santi Pietro e Paolo; per l’Arcivescovo (un tempo il Patriarca) si domanda l’intercessione di san Marco, fondatore della Chiesa aquileiese, e dei santi Ermacora, Fortunato e Ilario; quindi si passa alla preghiera per tutti i vescovi, i presbiteri, i diaconi (nel testo originario era prevista la menzione anche dei suddiaconi) e per tutte le componenti ministeriali della Chiesa affidate all’intercessione dei santi pastori Gregorio, Ambrogio e Agostino. Nel testo riportato nel codice Orationes et Capitula dell’Archivio Capitolare di Udine, risalente al XII secolo e successivamente trascritto da Francesco Florio, Bernardo de Rubeis e Giuseppe Vale, si menzionano anche l’imperatore (per il quale si chiede l’intercessione degli arcangeli), la consorte (per la quale ci si affida alla Madre di Dio e alle sante aquileiesi Eufemia e Tecla), il re (affidato alla preghiera dei santi martiri Felice e Fortunato), e, infine, coloro che esercitano la giustizia e i soldati (per i quali si invocano i santi Maurizio, Giorgio e Teodoro).

 

Invocazioni cristologiche

Ad introdurre le invocazioni ai santi troviamo la triade Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat, proveniente dall’ambito gallo-franco: essa esalta Cristo, Signore della storia, al quale l’assemblea orante chiede di essere esaudita (Exaudi, Christe). Ripetuta la triade cristologica, risuonano le espressioni di gioia (Feliciter) o di supplica per coloro per i quali si è pregato (Tempora bona habeant). Il tutto in un continuo riferimento al Figlio, Salvatore glorioso (Rex regum, Spes nostra, Gloria nostra), a cui solo va la lode di tutta la Chiesa (virtus, fortitudo et victoria; honor, laus et iubilatio). Infine, l’augurio che il giubilo di questo giorno si estenda per molti anni (Hunc diem. Multos annos) e che Dio custodisca questa santa Chiesa, pellegrina nel tempo (Istam sedem. Deus conservet).

 

Cenni storici

Le nostre acclamazioni appartengono al genere delle cosiddette laudes regiae, di epoca carolingia, e traggono origine dagli omaggi resi all’imperatore per il quale si chiedeva vita e vittoria. Così anche nel Medioevo, come ampiamente dimostrato dagli studi di Ernst Kantorowicz, si afferma gradualmente un culto liturgico del sovrano (culto peraltro non privo di ambiguità). Come effetto dell’attribuzione, tipicamente medievale, di caratteristiche sacerdotali al re e di prerogative feudali ai vescovi, anche le nostre acclamazioni ben presto vengono trasferite dal sovrano al vescovo e pertanto impiegate soprattutto nell’ordinazione dello stesso. A Roma, all’inizio dell’VIII secolo, quando il Papa comincia ad essere ricevuto con tutti gli onori imperiali, anche le Laudes trovano il loro posto in tale contesto. Sarà soltanto con l’età gotica e il Rinascimento che si affievolirà l’idea dell’imperatore come immagine terrena di Cristo, e di conseguenza anche le acclamazioni lentamente cadranno in oblio. Soltanto a cavallo tra XIX e XX secolo si assiste ad un revival, con la riproposizione delle acclamazioni soprattutto nelle celebrazioni pontificie; tale riscoperta trova l’emblema di un nuovo corso nella diffusione del noto Christus vincit di Aymé Kunc (1877-1958), nel contesto dell’istituzione della festa di Cristo re (1925).

 

Tra lode e memoria, canto e tempo

Nell’economia cristiana l’unico sovrano è il Figlio di Dio, che solo può ricevere gloria, onore e potenza (cf. Ap 4,11) e che è anche il capo del Corpo, che è la Chiesa, il principio, colui che ha fatto pace con ogni cosa nel suo sangue (cf. Col 1,15-20). L’uso delle Laudes, soprattutto nei momenti di esordio dei percorsi ecclesiali, come ad esempio l’inizio del ministero del Papa e i Sinodi episcopali, funge da atto di umile memoria: la Chiesa ancora una volta ricorda a sé stessa che il suo agire non dipende da programmi più o meno realizzati o dal carisma seduttivo di qualcuno, ma dalla disponibilità a lasciarsi forgiare dalla grazia di Cristo che la guida nei sentieri del tempo.

Chiedere ai santi, che già hanno compiuto la loro testimonianza, di soccorrere il Papa, i Vescovi e tutti i ministri della Chiesa e coloro che hanno autorità nel mondo corrisponde all’esortazione di 1 Tm 2,1 di pregare «per i re e per quelli che stanno al potere» affinché tutti possiamo «condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». L’esercizio dell’autorità è sottomesso all’azione di Dio, e così pure il corso della storia, tanto da spingerci a implorare per tutti “tempi buoni”.

Anche la nostra Chiesa, che ogni anno raccoglie la testimonianza dei suoi martiri e ne trae luce, può continuare a guardare avanti con fiducia e prendere il largo (cf. Lt 5,4) se, come Pietro, si inginocchia e, guardando il Signore umile e fiduciosa, continua a invocare per ogni ministro della Chiesa e per ogni battezzato: Tu illum adiuva.

 

Immagine:

La pala di Pellegrino II (Duomo di Cividale). Al centro la Madre di Dio con il Figlio, ai lati gli arcangeli Michele e Gabriele, attorno i santi, aquileiesi e di venerazione locale, e ai piedi della Vergine il patriarca Pellegrino, minuscolo, che invoca misericordia.

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